Il nuovo saggio di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai è una chiamata – forse l’ultima – per riaccendere la nostra volontà di cambiamento, in una fase in cui l’innovazione appare pericolosamente “fuori giri” rispetto a transizioni socio-ambientali sempre più urgenti
Risorse, idee, tecnologie, talenti, consapevolezza dei nostri problemi e, perfino, delle possibili soluzioni: in apparenza, gli ingredienti per dare vita a un’innovazione in grado di migliorare davvero la nostra società ci sono tutti. Eppure, al tempo della “grande defezione”, manca qualcosa: il desiderio. Secondo Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, infatti, non nascerà nessuna soluzione nuova (o non durerà così a lungo) se manca «chi» la desidera così tanto da farla accadere. Così, in un nuovo saggio edito da Egea, gli autori riflettono sul potere delle aspirazioni per generare innovazione e giustizia sociale. Lanciando un appello a fare “Spazio al desiderio”.
Venturi e Zandonai partono da un presupposto incontrovertibile, ma spesso sottovalutato: al centro delle nostre azioni, relazioni e decisioni, c’è un surplus capace di alimentare cambiamenti e trasformazioni, non decifrabile unicamente secondo una visione biologica. Socialità, management, imprenditorialità e politica dipendono dal «fattore desiderio». La creazione di valore ha infatti bisogno tanto di competenze quanto di significati.
Eppure, viviamo in un’epoca storica in cui, soprattutto nel nostro paese, il cambiamento sembra avvenire non per una qualche volontà di rivolgimento che necessariamente richiede di mobilitare risorse ed energie fondate sul desiderio, ma piuttosto per effetto di un collasso dovuto a una «grande defezione» che porta un numero crescente di persone a ritirarsi dai principali contesti di vita: il lavoro, la partecipazione civica, la politica. Il tutto per rifugiarsi in un sé a sua volta impoverito proprio nella componente di desiderio, tanto da risolversi in micro-comportamenti che sanno di palliativo piuttosto che di autentica capacità di cura del sé e di un noi.
Oggi più che mai, al contrario, occorrerebbe ripartire dal desiderio inteso non solo come pratica introspettiva finalizzata alla crescita personale, creando le condizioni affinché l’energia sorgiva di ciò che è desiderato diventi un processo collettivo che si manifesti in percorsi capaci di cambiare l’architettura del sistema sociale: le politiche, le organizzazioni, le reti e le loro principali funzioni.
Ma quali direzioni intraprendere per uscire dall’entropia del desiderio e liberarne il potenziale? In primo luogo, secondo gli autori, è fondamentale mettere in discussione le principali modalità attraverso cui si interpreta il movente dell’agire, ovvero gli interessi e i bisogni. In secondo luogo, è doveroso «deporre le armi» rappresentate da strumenti gestionali e forme societarie che in questi anni sono state utilizzate per promuovere e gestire l’innovazione tecnologica e anche sociale, emancipandola dal dominio della tecnica che l’ha fin qui fagocitata anche nelle sue componenti di natura processuale e soft. Se in passato l’innovazione sociale era una specie di derivata di quella tecnologica, ora il rapporto di forza va ridefinito.
Perché l’innovazione resta un fatto sociale, incarnato cioè da persone, collettività e organizzazioni che ricercano il cambiamento come condizione di una vita migliore in armonia con i contesti ambientali in cui vivono.
“Per ribaltare i modelli e le logiche che hanno fin qui soprasseduto al fare innovazione, l’ultima grande leva trasformativa rimasta è il desiderio, l’aspirazione a fare cose nuove insieme che producano impatti positivi, tangibili, duraturi e, soprattutto, ormai necessari e urgenti”, scrivono gli autori. “Una prospettiva che continuasse a sterilizzare il desiderio comprometterebbe la generatività delle azioni e delle interazioni, mettendo in crisi la sostenibilità delle transizioni sociali e ambientali faticosamente in atto. Il desiderio ci porta fuori dal nostro io, ci fa sconfinare dal nostro perimetro conosciuto e ci trasporta verso l’inatteso”.
“L’innovazione sociale”, concludono Venturi e Zandonai, “è dunque tutt’altro che un fenomeno passeggero e fugace, utile magari per esigenze di mero posizionamento o di dibattito, spesso autoreferenziale, tra addetti ai lavori. È invece il vero e proprio vettore di cambiamento che anche questo libro vuole continuare ad alimentare affinché non solo i suoi esiti ma anche i suoi processi di formazione e di governo siano sociali perché di natura collettiva”.