Nel suo nuovo saggio, Rossella Sobrero spiega come le organizzazioni possano comunicare l’impegno sociale con molte opportunità ma anche alcuni rischi. E come gli stakeholder – dai clienti ai consulenti – possano aiutarle, stimolandole ad adottare comportamenti corretti.
Quante campagne che ci fanno sorridere o commuovere potrebbero essere rilette con occhio critico ed essere accusate di socialwashing? Molto raramente quando vediamo uno spot – o un post – ben realizzato che propone messaggi di solidarietà, inclusione, sostegno alle persone ci chiediamo se l’organizzazione che ci sta parlando metta in pratica questi principi oppure cerchi solo un modo per conquistare la nostra attenzione proponendo un’immagine più positiva di quello che è il suo impegno reale. In un mercato dove prodotti e servizi spesso sono simili per prestazioni e prezzo, d’altronde, l’adesione a nobili ideali può diventare un fattore che condiziona la scelta d’acquisto. Ma qual è il limite da non oltrepassare? Nel suo nuovo saggio, edito da Egea, Rossella Sobrero spiega come le organizzazioni possano evitare il “Pericolo Socialwashing” e comunicare l’impegno sociale tra opportunità e rischi.
Non bisogna dimenticare che, in particolare per un’azienda, non è sempre facile sposare una buona causa e prendere posizione su argomenti che sono ancora in parte divisivi. Quando decide di esporsi deve farlo in modo consapevole sapendo che può diventare pericoloso raccontare questo impegno se non si ha alle spalle una solida reputazione e se non ci si crede veramente, agendo di conseguenza.
Le imprese che utilizzano sostenibilità e temi sociali in modo strumentale corrono due grossi rischi. Innanzitutto quello di essere escluse dal mercato a causa di regolamenti che si fanno sempre più severi e stringenti, e poi quello di essere accusate pubblicamente di socialwashing, ovvero di comportamenti socialmente positivi ma solo di facciata. Un fenomeno che si articola in una – più o meno colorata – gamma di declinazioni: pinkwashing, rainbow washing, blackwashing, healthwashing, sportwashing, fino a quella silenziosa del greenhushing. Ma la creazione di neologismi – da beewashing a shrinkflation, da charitywashing a systemwashing – sembra non finire mai ed è tuttora in corso. Se vuole evitare l’accusa di washing, insomma, l’organizzazione deve essere sincera, comunicare in modo trasparente le proprie strategie, raccontare non solo le azioni realizzate ma anche l’impatto generato.
Docente di Comunicazione sociale e istituzionale all’Università degli Studi di Milano e Marketing non convenzionale all’Università Cattolica di Milano, Sobrero spiega con chiarezza, anche grazie a molti esempi, quali sono le principali declinazioni del socialwashing, condividendo azioni e strumenti che possono mettere, almeno in parte, l’organizzazione al riparo da questo tipo di accusa. Ma, soprattutto, cerca di ribaltare il punto di vista comune, spiegando non solo cosa può fare l’impresa per i suoi stakeholder ma anche quali azioni gli stakeholder possono fare per aiutare l’impresa ad evitare questi rischi. Se di prassi siamo abituati a pensare a che cosa può fare l’azienda per coinvolgere i portatori di interessi, raramente riflettiamo sul ruolo che gli stakeholder possono avere per stimolare l’organizzazione ad adottare comportamenti corretti e a raccontarli in modo trasparente. Invece clienti, fornitori, dipendenti, investitori, associazioni di categoria, professionisti e consulenti (commercialisti, avvocati, esperti di comunicazione) possono giocare un ruolo fondamentale nel correggere la rotta delle organizzazioni.
“Per un’impresa definire una strategia di sostenibilità non può essere una scelta casuale né marginale”, chiarisce l’autrice. “Un dato inconfutabile è l’aumento registrato dalle iniziative che coinvolgono i portatori di interessi: gli stakeholder vengono ascoltati, i loro suggerimenti presi in considerazione e, più spesso di quanto accedeva in passato, diventano stimoli per un vero cambiamento dell’organizzazione”.
Perché chi crede nella sostenibilità – quella vera – ha il dovere di smascherare ogni pratica di washing. Un impegno non solo delle persone e delle istituzioni ma anche delle imprese realmente responsabili.
“Oggi”, scrive Sobrero, “la vera sfida per chi deve raccontare la sostenibilità di un’organizzazione è riuscire a comunicare in modo nuovo valori, azioni concrete, benefici generati. Una sfida difficile perché c’è sempre il rischio di proporre messaggi sbagliati. Per cercare di non fare errori è importante riflettere molto bene prima di decidere che cosa comunicare e non solo come comunicare: una riflessione che deve riguardare contenuti, parole, immagini, strumenti, tempi, investimenti necessari per realizzare una comunicazione che sia efficace. Con la consapevolezza che sono fondamentali competenze adeguate e una buona dose di sensibilità”.
Ad arricchire il libro, una raccolta di interviste realizzate dall’autrice a venti autorevoli personaggi che offrono punti di vista differenti sul socialwashing e sugli sviluppi che questa pratica potrebbe avere in futuro: Andrea Alemanno, Concetta Cardamone, Giampaolo Cerri, Vittorio Cino, Monica De Paoli, Barbara Falcomer, Filippo Giordano, Enrico Giovannini, Enrico Giraudi, Pina Lalli, Paola Magni, Federico Mento, Roberto Natale, Matteo Pietripaoli, Roberto Randazzo, Angelo Rindone, Francesca Vecchioni, Clodia Vurro, Stefano Zamagni e Alberto Zambolin.