Barcellona, Torino, Pittsburgh, Lione, Milano, Istanbul, Tokyo, Wrocław, Matera: Paolo Verri accompagna i lettori in un viaggio alla ricerca dell’equilibrio tra crescita e senso di comunità, innovazione e identità culturale, radici e slancio verso il domani, che tocca da vicino Comuni italiani e megalopoli internazionali
Crescita, crescita, crescita: che sia economica, tecnologica o demografica, l’importante è che il futuro punti sempre al rialzo. Vale per gli individui e i loro desideri personali, per le imprese, per gli Stati. E, oggi più che mai, per le città. Eppure lo sviluppo – fondamentale per un’evoluzione degli ecosistemi cittadini – può anche innescare meccaniche insidiose, talvolta perfino distruttive. Soprattutto se risulta fine a sé stesso. È “Il paradosso urbano” che dà il titolo al nuovo libro di Paolo Verri, in cui il noto manager culturale e docente universitario racconta le metamorfosi emblematiche di “Nove città in cerca di futuro”, capaci di superare crisi, mettere mano a strategie innovative e raggiungere risultati concreti per il benessere delle proprie comunità senza lanciarsi in grandi competizioni, quanto collaborando con gli interlocutori di riferimento nel segno di un reciproco scambio di buoni progetti e buone informazioni.
Barcellona, Torino, Pittsburgh, Lione, Milano, Istanbul, Tokyo, Wrocław, Matera: sono queste le città – tutt’altro che invisibili – al centro di un viaggio che Verri ha compiuto di persona nelle vesti di "urban practitioner". Alla luce della sua esperienza pluridecennale, quindi, l’autore cerca di riflettere su come le città stiano diventando sempre di più i luoghi in cui si elaborerà il futuro del pianeta, in cui si sperimenteranno nuovi modelli sociali e tentativi di pace permanente, in cui si svilupperanno una ricerca di frontiera e insieme modelli di cooperazione culturale inediti. Nel 2030, d’altronde, il 9% della popolazione mondiale abiterà nelle 33 città più grandi del mondo, nelle quali sarà prodotto il 15% del Pil globale. La “capitale” delle città, la supermegacittà, non sarà New York né Mosca, non sarà in Europa né in America, ma in Asia. E non sarà nemmeno in Cina, come molti potrebbero pensare. Il centro abitato più popoloso al mondo sarà Giacarta, capitale dell’Indonesia, che nel 2030 avrà ben 35 milioni di abitanti.
“Le città in tutti i continenti sono il motore di ogni forma di contemporaneità”, commenta Verri, “e le comunità ne sono il più delle volte inconsapevoli: alla perenne ricerca di un destino favorevole, senza sapere tuttavia come anticiparlo, chiedono alle diverse forme di governo di farsi interpreti della loro spinta, il più delle volte rivolgendosi a un sindaco che ne sappia interpretare le istanze in parte utilizzando la propria esperienza diretta, in parte attingendo al vasto bacino di esempi e alla disponibilità di collaborazione di chi abbia già sperimentato in precedenza tale percorso”.
Così Torino ha tentato di trasformare il proprio vissuto industriale proprio grazie all’esperienza olimpica vissuta da Barcellona prima di lei; Milano – nella simbolica staffetta tra le candidature a Expo 2015 e ai Giochi invernali del 2026 – ha superato le divisioni politiche dimostrando di essere il motore continuativo del sistema Italia, capace di unire progettualità e concretezza; Istanbul ha compreso di poter essere un potente hub di connessione tra Occidente e Oriente come nel secolo precedente era toccato al Cairo; Pittsburgh ha scelto la scienza e la tecnologia e appreso da Boston come generare valore aggiunto dalla ricerca nata per affrontare le crisi sanitarie prodotte da un Novecento fatto di fuoco e metallo.
Grazie a sapienti piani strategici urbani, in grado di valorizzare i punti di forza del proprio territorio – economici e culturali – Lione ha potuto esaltare il suo desiderio di essere il vero territorio-contrappeso a Parigi. Senza badare alle dimensioni, città piccole e medie come Matera e Wrocław si sono imposte sulla scena recente della narrazione europea trasformando le proprie vergogne e i propri drammi in punti di forza per la rinascita, da distruzioni che diventano ponti a evacuazioni che sono richiamo per nuovi modelli dell’abitare. Un po’ come la megalopoli Tokyo che, in un mondo afflitto dalla pandemia, è riuscita con le Olimpiadi estive del 2021 ad anticipare le sfide del futuro urbano con un mix di tecnologia e gentilezza, dando un segnale di speranza al resto del pianeta.
Viaggi non privi di difficoltà, contraddizioni e paradossi, ma in cui è stato fondamentale la capacità di dialogare, talvolta reinventarsi, perfino tornare sui propri passi e ricominciare da capo, alla ricerca di un delicato equilibrio tra crescita, valorizzazione della propria identità storico-culturale e il rispetto, se non rinnovamento, dei processi democratici. Perché, come ricorda l’autore: “Il mito della perfezione, della società equilibrata, della piena responsabilità di relazione tra potere e democrazia, tra ricchezza e ridistribuzione, è in crisi; e se c’e un luogo in cui questo mito insieme si celebra, si compie e si autodistrugge, quel luogo è la città. Eppure, il futuro passerà ancora dallo spazio urbano. E si sceglierà dove fare famiglia, dove studiare, dove divertirsi sulla base del racconto di quella singola città, della sua capacità di costruire una percezione positiva, in cui gli elementi fisici si combinano con i servizi offerti e con le reti che quel singolo quartiere, quella lunga teoria di strade e palazzi e luci e voci è in grado di offrire. Una città – come ogni organismo vivente – non può mai dire «ce l’ho fatta»: una città è una tartaruga di straordinaria longevità e bellezza, che non si farà mai raggiungere da nessun cittadino Achille”.