Egea


Nel suo nuovo libro, Salvatore Veca si pone una domanda la cui risposta viene data troppo spesso per scontata, ma che oggi più che mai si rivela essenziale per affrontare il futuro: qual è il vero valore della democrazia?

Perché la democrazia per noi vale ed è preferibile ad altri assetti e regimi politici e istituzionali? Una domanda che fino a qualche anno fa sarebbe sembrata banale ma che oggi, in un mondo Occidentale provato dal confronto continuo con crisi di diversa natura, pone molti cittadini nelle condizioni di non sapere – o non volere – rispondere.  Nel libro “Il mosaico della libertà” (Bocconi Editore – Egea, 2021), Salvatore Veca tenta di andare alle radici dei tratti distintivi della democrazia liberale, cercando di capire – e di spiegare – perché questa resti l’unica forma di governo e di vita in grado di preservare l’eco dei valori del progresso e della giustizia sociale. Dando vita a un rinnovato patto fra società, scienza e natura, fondamentale per affrontare un futuro che impone una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità collettive nel segno di equità e sostenibilità.

Quando pensiamo a una forma di vita democratica, pensiamo a un regime politico che ospita istituzioni, norme, procedure, provvedimenti e scelte collettive, interpretazioni politiche differenti dell’interesse pubblico di lungo termine. E consideriamo tutti questi come elementi fondamentali di un regime di democrazia liberale che, proprio grazie ad essi, si distingue da qualsiasi regime illiberale, autocratico o autoritario. Questo quadro, secondo Veca, è tuttavia incompleto. Uno dei tratti distintivi cruciali di una democrazia è infatti l’ampiezza, la densità e la ricchezza del suo spazio pubblico, in cui si esercita la libertà democratica per eccellenza: quel “principio di contestabilità qualificato” che consente di condividere con altre cittadine e cittadini cerchie di valore politico fra loro alternative e confliggenti, non necessariamente riducibili all’ordine dato e vigente.
È alla libertà democratica e allo spazio pubblico, insomma, che si deve guardare se vogliamo non solo descrivere un tratto saliente della democrazia come complesso artefatto politico, ma anche e soprattutto individuare le radici del suo valore per noi.

La libertà”, spiega Veca, “di parteggiare e di persuadere. La libertà di convertire e guadagnare seguaci a una prospettiva politica, la libertà di far spazio, se le cose hanno successo, a ‘mondi possibili’. Il principio di contestabilità qualificato rende conto in  tal modo del perché la democrazia vale, mostrando il proprio  carattere endogenamente generativo. Perché gli attori che nello spazio pubblico mirano a parteggiare per politiche  alternative, cui convertire un seguito crescente e durevole,  dilatano lo spazio del possibile democratico grazie all’esercizio collettivo dell’immaginazione politica e civileDelineando nello spazio pubblico la grammatica del  mutamento, dovuta all’esercizio della libertà democratica,  gli attori del cambiamento preservano il sogno di una democrazia accessibile a tutte e tutti”.

È questa, secondo l’autore, la base necessaria per dare spazio e forza all’altra faccia della globalizzazione: la mondializzazione possibile di una civiltà di tutte e di tutti, che si incentri su diritti e giustizia ambientale come giustizia sociale. Una possibilità oggi in conflitto con la realtà di un pianeta malato e di un’umanità prostrata da una pandemia che ha messo in evidenza la fragilità non solo della propria condizione ma anche delle società che essa ha costruito. La “normalità” tanto desiderata nei tempi bui, insomma, è per Veca un modello dal quale dovremmo  scostarci radicalmente dando vita a un mondo nuovo che non potrà prescindere dalle nuove generazioni e dalla loro educazione.

Un’educazione incentrata solo sull’idea di sapere utile è destinata a modellare e disciplinare le menti delle persone, addestrandole al problem solving con una scatola degli attrezzi, che paradossalmente si svaluta ciclicamente a fronte del mutamento continuo delle competenze, generato dalle frotte dell’incessante e pervasiva innovazione tecnologica. Noi dovremmo educare persone che fioriscano grazie a una visione. Visionari sì, ma visionari che sanno fare i conti. O meglio: ‘visionari’ che sanno che cosa vuol dire fare i conti e ne riconoscono la rilevanza e ‘calcolanti’ che sanno che cosa vuol dire avere una visione e ne riconoscono la rilevanza. L’interazione e la contaminazione fra i due modelli sembra essere allora la prospettiva promettente per i volti plurali dell’educazione nel ventunesimo secolo. Questa è la mia speranza progettuale”.

Perché, come ci hanno insegnato gli ultimi – difficili – mesi la cooperazione tra i diversi approcci disciplinari è l’unica risorsa grazie al cui impiego possiamo sperare di venire a capo delle sfide inedite che abbiamo di fronte, costruendo un futuro in cui le tessere del “mosaico della libertà” trovino finalmente il proprio posto.

 

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