Attraverso numeri, storie e casi di cronaca, il libro di Anna Zinola ripercorre la storia e traccia l’evoluzione del concetto di inclusione nel mondo della comunicazione, in bilico tra obiettivi commerciali e la possibilità di migliorare davvero la realtà che ci circonda.
Sempre più aziende si affidano a un diversity manager; le pubblicità calibrano con attenzione la presenza di donne e uomini di etnie differenti mentre sulle passerelle sfilano modelli e modelle di diverse età e taglie. Persino la Barbie è cambiata e, accanto alla classica bambola bionda e snella, troviamo le versioni con la vitiligine o l’alopecia. Viviamo nell’era dell’inclusione, in cui brand e personaggi pubblici sembrano fare a gara per promuovere e supportare politiche e iniziative legate alla diversità. Ma cosa resta dietro ai set pubblicitari o ai post su Twitter e Instagram?
La docente universitaria e giornalista Anna Zinola prova a rispondere a questo interrogativo con il suo nuovo saggio, “Diverso da chi”, in cui attraverso numeri, storie e casi di cronaca ripercorre la storia del concetto di inclusione nel mondo della comunicazione, raccontandone l’evoluzione in un percorso in bilico tra due estremi: da un lato la sua natura di strumento di marketing utilizzato per differenziarsi dai concorrenti – attirando e fidelizzando i cittadini-consumatori – dall’altro lato l’aspirazione a migliorare concretamente la realtà che ci circonda.
Un viaggio in cui non mancano gli esempi celebri: da Fenty Beauty, brand lanciato dalla popstar Rihanna che ha permesso di trovare la base trucco giusta a donne di etnie diverse, alla lunga serie di campagne di Dove, che in tempi non sospetti avevano cercato di scardinare la perfezione (irraggiungibile) dei modelli di bellezza femminile più ammirati dalla società; dalle linee di abiti per persone con disabilità lanciate dalle multinazionali Tommy Hilfiger e Marks & Spencer a quelle ideate dall’impresa italiana Lydda Wear, passando per il progetto “Diritto all’eleganza” promosso dall’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare coinvolgendo i ragazzi delle scuole superiori di secondo grado che si occupano di moda. E cosa dire della possibilità di personalizzare Barbie e Ken con decine e decine di combinazioni scegliendo tra tipologie di corporatura, carnagioni, acconciature, colori degli occhi e dei capelli, o della scelta di Lego di pensare anche a bambini e ragazzi ipovedenti con una linea di mattoncini creata appositamente per loro grazie all’utilizzo del braille? Per non parlare, poi, delle grandi battaglie sociali dei nostri tempi: dalla lotta al razzismo con il movimento “Black Lives Matter” a quella per il riconoscimento dei diritti LGBTQ+, con le Corporation in prima fila nella realizzazione di campagne di comunicazione e sensibilizzazione o raccolte fondi a sostegno di cause che hanno raggiunto una portata globale.
L’evoluzione raccontata da Zinola non si ferma agli schermi di smartphone, pc e tv e nemmeno su cartelloni pubblicitari e passerelle, ma arriva dritta dritta nel mondo del lavoro, tra i CdA e gli organigrammi delle multinazionali e gli uffici delle Pmi.
Perché l’inclusione – ormai è noto – non è solo nobile, ma anche remunerativa: se da un lato, ampliando il bacino dei consumatori, consente di incrementare il proprio fatturato, dall’altro permette di raggiungere anche migliori performance aziendali. Studi sul tema condotti da un pool di consulting agency, tra le quali Bersin by Deloitte e McKinsey & Company, hanno verificato che le imprese fondate su una leadership inclusiva possono godere di numerosi benefici rispetto alle concorrenti. Innanzitutto, hanno una migliore capacità di prendere decisioni che sfidano lo status quo nella gestione della complessità. In parallelo sono più orientate all’innovazione, in quanto le differenze di pensiero, peculiari in team di composizione variegata, sono una fonte di creatività. Inoltre possono contare su una più spiccata capacità di percepire e gestire i rischi e su una migliore abilità di intercettare, attrarre, coinvolgere e fidelizzare i consumatori, soprattutto i più giovani. Infine le aziende con una leadership eterogenea vantano flussi di cassa per dipendente raddoppiati e in alcuni casi triplicati nell’arco di tre anni.
“Quando si parla di inclusione bisogna prestare attenzione”, avverte Zinola. “Spesso, infatti, accade che tutto si risolva in politiche che mirano a un maggior profitto o che dietro a una brillante comunicazione vi sia poco o nulla. Al netto di tutto questo, però, va riconosciuto che l’ampliamento dell’offerta in un’ottica inclusiva – sebbene guidato da una logica profit – abbia portato un cambiamento reale per i consumatori. Molti di loro hanno finalmente trovato il prodotto giusto in grado di soddisfare le proprie esigenze. Anche perché l’azione di un’azienda ha talvolta creato un effetto valanga, spingendo tutto il comparto a muoversi nella direzione della diversity. Comunque la si voglia guardare, insomma, l’inclusione genera valore e sarebbe ora di provare a perseguirla con politiche realmente incisive a tutti i livelli”.