Nel suo nuovo saggio, Federico Butera propone di affrontare i problemi e valorizzare le potenzialità del nostro Paese non solo attraverso azioni dall’alto ma partendo da processi partecipativi dal basso, fondati su un continuo “ridisegno” delle organizzazioni e dei lavori
L’ Italia è una società di organizzazioni ineguali. Alla radice della scarsa produttività delle imprese, della insufficienza dei servizi promossi dalle Pubbliche amministrazioni, delle diseguaglianze territoriali, sociali e di genere c’è una questione di qualità delle organizzazioni e del lavoro. Una debolezza comune alla maggior parte delle Pmi, delle realtà del terzo settore, della Pa. Le eccezioni non mancano di certo ma sono una minoranza e oggi sono sfidate da un livello di incertezza e volatilità senza precedenti.
La diagnosi di Federico Butera è tanto lucida da risultare quasi impietosa, tuttavia non è fine a sé stessa: nel suo nuovo libro, “Disegnare l’Italia”, edito da Egea, il sociologo propone politiche e progetti per organizzazioni e lavori di qualità come punto di partenza, e non di arrivo, per il rilancio del Paese.
Detto in altri termini: la politica, il governo, il mondo universitario, i rappresentanti dell’economia e delle parti sociali sono invitati ad assumere la questione organizzativa non come l’“intendenza che seguirà” atti puntuali nelle rispettive sfere di competenza ma come l’oggetto di specifiche politiche di promozione dotate di investimenti e di programmi specifici di medio e lungo periodo. Lo aveva fatto Roosevelt con il New Deal, De Gasperi con la ricostruzione postbellica, Schimdt con la Mitbestimung, Clinton e Gore con il programma Reinventing Government. E, secondo Butera, è chiamata a farlo anche l’Italia di oggi.
Nel saggio, l’autore promuove modelli e metodi di una nuova sociotecnica 5.0. in grado di assicurare la transizione green e digital e di promuovere al contempo prosperità alle imprese, alle Pa e alle comunità, un’alta qualità della vita alle persone e una marcata sostenibilità ambientale e sociale.
La sociotecnica 5.0 consiste nella adozione integrata delle tecnologie digitali abilitanti e di un’“Intelligenza artificiale giusta”, che generi crescita per tutti e non disoccupazione; nello sviluppo di infrastrutture tecniche ed economiche degli ecosistemi e delle reti governate; nel potenziamento delle organizzazioni reali animate da team eccellenti; nel favorire ruoli aperti e professioni a larga banda; nella formazione continua e nella tendenziale professionalizzazione di tutti. Il tutto, senza dimenticare la promozione e il supporto a programmi e progetti partecipativi nelle singole organizzazioni private e pubbliche.
Il libro non si aggiunge ai numerosi (e pregevoli) testi su come organizzare. Seguendo gli esempi delle imprese dell’Italian Way of Doing Industry e delle migliori Pa che hanno avuto successo, Butera spiega come sviluppare nuove forme di strutture sociotecniche robuste e flessibili centrate sui processi e sull’innovazione, che superino i modelli burocratici e taylor-fordisti fondati su organigrammi e procedure che hanno dominato nel secolo scorso e che sono ancora una latente eredità. Un percorso basato su un solido impianto teorico – con la condivisione di mezzo secolo di progressi nelle teorie organizzative – e su tecniche concrete come quelle adottate dalle buone pratiche gestionali e tecnologiche.
Gli esempi e i metodi concreti proposti dall’autore sono destinati agli “architetti delle organizzazioni e del lavoro” che operano sia nelle realtà di punta sia in quelle più fragili: imprenditori, manager, membri delle istituzioni, amministratori pubblici, docenti, ricercatori, sindacalisti, gruppi di lavoratori. Soggetti che nella loro pratica professionale – mentre gestiscono e tentano di innovare le realtà in cui operano – sviluppano anche nuovi modelli di organizzazione, di tecnologia, di lavoro.
Secondo Butera, oggi occorre diffondere su larga scala le lezioni dei loro progetti riusciti, come nell’Ottocento era avvenuto con le Amministrazioni di Maria Teresa d’Austria e nel secolo scorso con le fabbriche della Toyota, con la Scuola di via Panisperna o i laboratori della Nasa. Potenziando il “senso di sé” di questi “architetti” come classe innovatrice del Paese.