Da un lato un esperto di risorse umane, dall’altro un filosofo: il “Dialogo sul lavoro e la felicità” cerca di rispondere a una domanda sempre più centrale nelle nostre vite. Possiamo ancora dare un senso all’esistenza attraverso (o, almeno, durante) il nostro percorso professionale?
Quasi un italiano su due afferma di soffrire di malesseri psicologici per motivi legati al proprio lavoro mentre negli Stati Uniti imperversa il fenomeno della “Grande dimissione”, con 4,3 milioni di professionisti che hanno abbandonato il proprio impiego nel solo mese di agosto 2021, cifra che sale a 20 milioni facendo partire il calcolo da aprile. E fenomeni analoghi si riscontrano in altri Paesi, come Germania e Regno Unito. Nel mondo riemerso dalla pandemia, insomma, sempre più cittadini sembrano interrogarsi sul ruolo del lavoro nella propria vita e nella società che li circonda. Lo hanno fatto – in tempi non sospetti – anche due appassionati osservatori: Paolo Iacci e Umberto Galimberti nel “Dialogo sul lavoro e la felicità”.
Il lavoro è una via per la felicità o una maledizione a cui è impossibile sottrarsi? Il confronto tra Iacci, esperto di risorse umane, e Galimberti – filosofo, accademico e psicoanalista – nasce da una domanda che in pochi sembrano avere il coraggio di porsi seriamente, senza cadere nella tentazione di derubricarla a inutile speculazione o alla chiacchiera da bar di giovani viziati alle prese con il “sogno” del famigerato chiringuito in riva al mare. Nonostante la questione tocchi – nel profondo – ciascuno di noi.
Per gli antichi greci il primo passo verso la felicità consisteva nel conoscere la propria natura per poterla realizzare. Solo chi realizza la propria vocazione può raggiungere la felicità, ma la nostra società, regolata dal mercato e dominata dalla tecnica – quindi basata su logiche di mera prestazione, di efficienza produttiva volta solo al profitto – non aiuta in questa ricerca. Anzi, sembra fare di tutto per osteggiarla: il progresso tecnologico rende il lavoro sempre più rapido, complesso e meccanico e le persone trovano difficoltà non soltanto a comprendere la valenza etica dei propri sforzi, ma anche ad abbracciare (e capire) la totalità dei processi di cui sono parte. A queste condizioni, è evidente, il lavoro non può essere un mezzo per realizzare il proprio potenziale e raggiungere la felicità.
Destreggiandosi tra echi filosofici e richiami letterari – da Camus a Primo Levi, da Heidegger a Platone passando per Jaspers, Seneca e Dostoevskij – gli autori si calano in una discussione che non offre facili soluzioni, ma spunti per riflettere sull’attuale sistema economico, sugli ostacoli che impediscono all’uomo di realizzare sé stesso e su quali strade provare a percorrere per invertire una rotta pericolosa, partendo da una ritrovata (e rinnovata) educazione sentimentale.
“La finanza speculativa, nella sua ingordigia e pervasività, ha determinato diseguaglianze eccessive, i dipendenti sono troppo demotivati, la società troppo dilaniata e l’ambiente troppo degradato per pensare di poter continuare così all’infinito”, osserva Iacci. “In questo quadro dobbiamo ripensare a nuove forme di organizzazione del lavoro, non più basate sul paradigma del comando/controllo, che siano contraddistinte da maggior delega, più ampia autonomia delle persone e maggiore attenzione alla loro motivazione e alla soggettività dell’individuo. Per poter funzionare, i luoghi di lavoro dovranno dare spazio anche alla dimensione emotiva e non unicamente a quella razionale e tecnocratica”.
“Occorre pensare a un sistema produttivo finalizzato non solo alla produzione di merci e sempre più merci, ma anche e in misura crescente di servizi per la persona e per la relazione tra le persone”, riflette Galimberti. “La cultura e un lavoro non alienato devono diventare una condizione personale diffusa e smettere di essere considerati solo un privilegio. Questo perché la felicità, nonostante la pubblicità serva delle merci vi alluda, non ci viene dall’ultima generazione di cellulari o dall’ultima creazione del sarto alla moda, ma da un sistema più sviluppato di relazioni che il lavoro come ‘servizio’ e non solo come ‘produzione’ potrebbe cominciare a garantire. Occorre kantianamente cercare di considerare finalmente l’uomo come fine e non solo come mezzo”.