Che cos’è oggi la verità? E quale ruolo ha nella nostra vita pubblica e privata? Nel suo nuovo saggio, la filosofa Gloria Origgi tenta di rispondere alla domanda che, silenziosa, aleggia su questi tempi confusi
Qual è la verità? È passato oltre un secolo da quando questo concetto è stato “messo alla porta” dai salotti buoni della filosofia e della scienza, eppure non passa giorno senza che milioni di persone si pongano la fatidica domanda. Ma allora, di cosa parliamo oggi, dopo un secolo di argomenti contro la verità, quando parliamo di “lei”? Quale ruolo ha nella nostra vita, nel discorso pubblico, nel progetto collettivo di costruire un mondo comune che rappresenti i fatti nel miglior modo possibile? Parte da questi interrogativi l’ultima indagine della filosofa Gloria Origgi, che nel libro “Caccia alla verità – Persuasione e propaganda ai tempi del virus e della guerra” si addentra nella cacofonia di voci che dicono tutto e il contrario di tutto (su tutto) cercando di trovare un terreno comune che non si sgretoli continuamente sotto i nostri piedi.
Nonostante oggi abbia assunto una vera e propria connotazione politica, la “guerra” per la verità (e contro di essa) non è nuova. È cominciata con la filosofia occidentale ed è la stessa che Platone combatteva contro i sofisti della città, i venditori di incertezza che sovvertivano le coscienze dei cittadini impedendo loro di contemplare l’accordo armonico tra mente e fatti. Oggi la filosofia è ben più scettica sull’esistenza della verità come qualcosa al di fuori di noi, eppure questa non è scomparsa dai nostri discorsi e dalle nostre preoccupazioni: è alla base delle nostre posizioni politiche, delle nostre decisioni di agire, del nostro senso morale. Ma anche dei nostri pregiudizi.
“Viviamo un’epoca polarizzata”, spiega Origgi. “Più le voci aumentano, più le divisioni politiche e ideologiche riflettono mondi di credenze diverse e incompatibili. Dai due poli, ognuno pensa che l’altro si sbagli profondamente, ossia creda cose false. E che il nostro polo sia il paladino della verità. Usiamo la verità come una nuova arma politica, per screditare chi non è d’accordo con noi, o per denunciare verità «fabbricate» dalle élite potenti nemiche del popolo”.
Verità e politica, però, si costruiscono assieme e ci sono modi molto diversi di costruirle. Alcuni sono sostenibili con l’organizzazione delle nostre società e della nostra mente, con la globalizzazione e lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione; altri, invece, non lo sono.
Secondo l’autrice, la situazione di oggi ricorda quella della Prima Guerra Mondiale. Il conflitto costò così tante perdite umane per una ragione semplice: le armi erano evolute tecnologicamente, ma non le strategie di battaglia. “Oggi ci troviamo nella stessa situazione da un punto di vista dell’informazione. Abbiamo ancora strategie politiche, di comunicazione e di educazione pre-web in un contesto informazionale che ha subito una rivoluzione importante almeno tanto quanto quella che portò 13.000 anni fa l’umanità dal Paleolitico al Neolitico. Nessuna delle nostre istituzioni del sapere si è adattata ancora a questa transizione. Eppure, non abbiamo istituzioni del sapere globali, non abbiamo una nuova pedagogia, una nuova epistemologia, né una nuova legislazione globale, né un nuovo modello di informazione per una società aperta e iperconnessa”.
Alternando riferimenti all’attualità e richiami ai grandi nomi della storia della filosofia, Origgi ripercorre l’evoluzione del concetto di verità fino a oggi, cercando di capire che cosa abbia innescato il cortocircuito nella trasmissione del sapere all’interno della civiltà “più informata di sempre”. Per poi cercare di individuare i presupposti su cui (ri)costruire un punto di incontro tra posizioni sempre più inconciliabili.
“Oggi c’è da lavorare molto, moltissimo, per cambiare le istituzioni del sapere, ma non aggiungendo strati di regole complicate e nuove forme di censura”, conclude Origgi. “L’ambiente cognitivo che ci circonda e la nostra mente individuale devono cambiare insieme. Bisogna creare nuove istituzioni in grado di accettare questa sfida. Una scuola che insista sulle capacità di filtrare l’informazione molto più che su quelle di riceverla passivamente. Dovremmo sviluppare istituzioni vigilanti il cui obiettivo sia promuovere la conoscenza, non il profitto. Incoraggiare i progetti aperti di scambio e produzione di informazioni. Ripensare le accademie non come imprese o hotel di lusso per giovani adulti, ma come ambienti collettivi internazionali distribuiti di vigilanza epistemica. Contro una tradizione romantica che pensa che nell’autenticità del messaggio ci sia tutto, io qui insisto che una buona dose di snobismo intellettuale che vi faccia riflettere su chi dice cosa è un’ottima strategia epistemica per infine avvicinarsi alla verità. Dobbiamo fare prosperare la fiducia, l’unica arma contro l’idiozia scettica di pensare che tutte le idee si equivalgano”.